12 maggio 2014

Soltanto un’onesta riflessione: un paio di spunti dopo la celebrazione della Vittoria vissuta a Mosca.

(english.pravda.ru)
Roberto Mantero

Il 9 maggio, mentre in Europa si celebrava l’Europe Day e in Italia ricorrevano gli anniversari della morte di Peppino Impastato e di Aldo Moro, in tutta la Russia si ricordava l’annuncio della vittoria sul nazismo, seguente la firma della resa incondizionata della Germania alla fine della II Guerra Mondiale.
Faccio una premessa: da quattro mesi sono in scambio a Mosca, e sono quattro mesi che mi affanno a cercare di farmi un’opinione ragionevole di questo paese, sfuggendo ai facili ottimismi nati dall’osservare una dinamicità (anche se non so quanto duratura nel tempo) sconosciuta in Italia e agli altrettanto scontati giudizi negativi derivanti dall’attuale congiuntura politica internazionale (tradotto: Ucraina; che poi anche qua ci sarebbe da discutere).
Nel complesso posso dire che il mio tentativo è già fallito: Mosca è probabilmente un’isola nel grande mare della Federazione, con una realtà completamente diversa, tanto che già altri l’hanno definita La Mecca russa, non può valere come campione unico. A questo si aggiungano la barriera linguistica rappresentata dal mio più che pessimo russo, la naturale riservatezza di un popolo che ne ha viste passare molte e che, nella sua componente più giovane, non ha forse ancora capito dove sta andando, e un pizzico di eurocentrismo da parte mia che inevitabilmente non sono riuscito a scrollarmi di dosso. Conclusione: qualche opinione confusa che magari prima o poi a mente fredda cercherò di mettere nero su bianco per cercare di cavarci qualcosa, belle fotografie e poco altro (tralasciando la sfera strettamente privata, fortunatamente ben più nitida).

Tuttavia mentre passeggiavo in buona compagnia per Park Pobedy (il Parco della Vittoria, completato negli anni Novanta per celebrare le vittorie contro Napoleone e i nazisti), ecco qualcosa che mi colpisce con chiarezza: la grande partecipazione popolare nel ricordare quanto è stato, con un livello di coscienza che ai miei occhi è sembrato decisamente più adeguato alla portata dell’evento. Il pomeriggio è stato dei migliori: venticinque gradi, spuntino post parata militare (o almeno quel poco che sono riuscito a vedere), riposino sul prato circondato da una grande festa.

Tornando a casa però un tarlo continuava a girarmi in testa, come se qualcosa non quadrasse all’interno dei miei schemi cognitivi. Abituato a relazionarmi (e lo devo confessare, con un po’ di pigrizia) con il ricordo storico della II Guerra Mondiale in un certo modo, quanto ho visto mi ha portato a riflettere sulle differenze con l’Italia e sul modo peculiare che i Russi hanno trovato nell’incastonare una grande vittoria nel flusso, grandioso e temibile, di tutto quello che è successo nei settant’anni successivi, specie negli ultimi venticinque.

Il primo pensiero, condiviso peraltro da un amico austriaco, è stato: “Ecco la differenza tra un paese che ha vinto la Guerra e uno che l’ha persa!”. Il tutto accompagnato da una risata, anche perché le scene viste erano quanto di più sano si potesse immaginare: giovani e persone di mezz’età orgogliosamente in giro con fotografie dei propri famigliari morti in guerra, veterani in divisa pieni di medaglie che, semplicemente seduti su una panchina, ricevevano un fiore e un grazie per il loro impegno e sacrificio di tanti anni prima da ventenni e bambini, piccole bande musicali che si aggiravano per l’immensa folla intonando la Katusha. Il suddetto tarlo però ha messo una punta di amaro in tutto questo: sarebbe possibile tutto questo da noi? La risposta ovvia è no: come già detto la guerra l’abbiamo persa (per fortuna). Quello che abbiamo è l’incredibile esperienza partigiana antifascista partita dal basso, la cui memoria si scontra sempre di più con l’incapacità, mi dispiace dirlo, tutta italiana (basta fare un salto in Germania per rendersene conto) di fare i conti con il proprio passato, e non solo relativamente alla Guerra Mondiale. Sinceramente non so cosa sia andato storto, ma sono stati fatti alcuni errori di gestione politica e di formulazione intellettuale, sia dai cattolici sia dalla sinistra, per cui ora questo patrimonio è visto perlomeno con sufficienza, pericolosamente vicino al baratro del dimenticatoio. Purtroppo, neppure io mi sento completamente esente da ciò.

La seconda riflessione, collegata con quanto detto sopra, parte dal mio stupore nel considerare l’apparente triplo salto mortale intellettuale che permette ancora oggi un così fervido ricordo della vittoria in Russia. Non dico che questo sia necessariamente buono e giusto, sta di fatto che l’intensità mi ha sorpreso. Certo, una vittoria di quel genere contro forse l’unico male assoluto nella storia dell’Umanità è qualcosa che marchia indelebilmente a fuoco il DNA di una nazione, ma inoltre in questo caso s’incastrano degli elementi aggiuntivi: milioni di morti causati da una strategia militare incurante del massacro, quarantasei anni successivi di regime, la disgregazione di un’entità unica in quindici componenti con rapporti non sempre idilliaci tra loro, un decennio di completo caos, politico, economico e ideologico, seguito da tre lustri quantomeno opachi se non autoritari sul piano interno ma di buona crescita economica, in cui il nazionalismo, in senso più o meno neutro, ha fatto la sua ricomparsa. Ce ne sarebbe da far girare la testa a qualsiasi popolo, eppure il ricordo di quella tragica, sacrificale vittoria si è qui mantenuto, anche in questo contradditorio turbinio. Le ragioni possono essere le più varie, provenienti dal basso e dall’alto, tutte corrette e allo stesso tempo sbagliate: il retaggio della retorica comunista del passato; un tradizionale legame alla madrepatria; l’opportunistica, in chiave politica odierna, strizzatina d’occhio ai paesi vicini in nome di un glorioso gesto comune; una maggior abitudine al militarismo; una risposta a un mondo esterno percepito come ostile senza averne una ragione (e questa sensazione l’ho trovata molto forte, più forte di quanto me l’aspettassi); il fatto che comunque si è dalla parte giusta della Storia; il ricordo di un qualche famigliare morto.

La combinazione è stupefacente, il risultato ancora di più: un popolo che magari non ha ancora fatto i conti né con il proprio presente economico e politico né con il proprio recente passato, ma che sembra avere, nonostante tutto, un punto fermo in quanto accaduto settant’anni fa.

È evidente che il paragone con la situazione italiana non regge, troppo diverse sono le vicende storiche precedenti e successive il dopoguerra, tuttavia il confronto, anche solo visivo, resta impressionante, anche dentro una piccola, sconclusionata, riflessione personale.