6 maggio 2013

It's Capitalism, stupid! Democrazia oltre il capitalismo?

Nell'ambito delle iniziative di dibattito e riflessione sull'Europa al tempo della crisi economica e dell'austerità promosse da il "Collettivo Prezzemolo" (studenti e ricercatori dell'Istituto Universitario Europeo), oggi alle ore 17 presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze, Lorenzo Cini presenterà il suo libro "Società civile e democrazia radicale".


L'opera affronta una tematica ampia, ricca di spunti ed estremamente attuale. Una "società civile" attraversata da conflitti non più riassumibili in quello classico "capitale-lavoro", che tenta di (ri)organizzarsi in nuovi movimenti sociali, anche a fronte della crisi della forma partito tradizionale; una democrazia rappresentativa sfidata da quei nuovi movimenti sociali che propugnano una forma di democrazia più diretta e radicale; il complicato rapporto tra democrazia e capitalismo, oggi sempre più identificabile con quel capitalismo finanziario internazionale che sfida gli istituti della democrazia rappresentativa.


Qui di seguito la presentazione dell'evento di oggi pomeriggio, seguita anche da alcuni spunti di riflessione prodotti dallo stesso autore, e attorno ai quali speriamo possa nascere un interessante dibattito anche tra i lettori del blog, visto che possiamo ritrovare molto di ciò che l'autore scrive anche direttamente nella attuale situazione italiana.


"La grave crisi economica che dal 2008 sta investendo violentemente i paesi dell’Unione Europea sembra porre seri interrogativi sulla stessa tenuta politica delle istituzioni democratiche europee. Più radicalmente – come molti osservatori internazionali stanno ormai iniziando a domandarsi – è il capitalismo compatibile con la democrazia? Sono gli interessi delle èlite economico-finanziare che stanno guidando le politiche di austerità in tutto il continente compatibili con gli interessi della maggioranza della popolazione europea? Se le risposte a questi interrogativi possono sembrare oggigiorno sempre più scontate, non così scontati sembrano invece essere i processi politici e sociali che stanno emergendo alla luce di queste risposte. Al momento, ancora del tutto aperti ed imprevedibili. 

Ed è proprio questo, l’altro, e più interessante, aspetto emerso dalla crisi del 2008: vale a dire, il costituirsi di una socialità autonoma e diffusa, sempre più critica verso le istituzioni fondamentali del capitalismo, sempre più ostile agli istituti della democrazia rappresentativa. È da questa società, è su questo brodo di coltura che si sono infatti affermate, dalla Grecia fino alla Spagna, le lotte dei movimenti degli “indignados” e di “OWS”, lotte che hanno provato a mettere in discussione gli assetti costituiti della democrazia liberale. Più che domandarsi se è il capitalismo compatibile con la democrazia, forse dovremmo rovesciare il ragionamento: è la democrazia compatibile con il capitalismo? Sono le istanze sociali e le prospettive politiche di questi movimenti capaci di mettere in scacco l’ordine politico ed economico delle “tecnocrazie”? Queste sono soltanto alcune delle domande a cui i movimenti contemporanei propugnatori di visioni radicali della democrazia dovranno provare a dare risposte politiche. È, in altre parole, pensabile e realizzabile una democrazia al di fuori del capitalismo?"


Presentazione del libro di Lorenzo Cini
“Società civile e democrazia radicale

6 Maggio, 17.00  (Italiano)
Facoltá di Scienze Politiche,
Universitá di Firenze (Novoli)

Modera:
Prof. Brunella Casalini (Universitá di Firenze)
Ne discutono:
Prof. Gianluca Bonaiuti (Universitá di Firenze)
Dr. Matteo Albanese (Universitá di Lisbona)

A seguire proiezione del documentario sul movimento anti-austerità greco: “Utopia on the Horizon”
di J.Roos e L. Oikonomakis (2012)


Potete visitare anche la pagina "It's Capitalism, Stupid" per gli eventi che il Collettivo Prezzemolo sta organizzando dal 3 al 12 maggio ("Festival dell'altra Europa).



Adesso vi lascio seguire, per chi volesse, l'autore in alcune sue brevi riflessioni, linee-guida dell'opera nonché tematiche di centrale importanza per democrazie e sistemi politici contemporanei. 

Perché società civile e democrazia radicale?

Iniziamo dal concetto di società civile. Molto criticato a sinistra. Anche giustamente. Parte più dalla riflessione sociologica degli ultimi 30 anni che dalle mie convinzioni personali. L’idea è quella che dalla fine degli anni 60 in poi i conflitti sociali che si sono dati nello spazio pubblico democratico abbiano avuto una diversa natura rispetto al conflitto capitale-lavoro classico così regolato nella dialettica e retorica del movimento operaio e delle sue organizzazioni ufficiali, di partito e sindacato. Questo ha portato all’emergere di una estesa letteratura sociologica, politica, filosofica sui c.d. “nuovi movimenti sociali”. Questa è l’area, l’arena di soggetti sociali a cui mi riferisco quando parlo di società civile nel mio libro. Che infatti specifico come “società civile dei nuovi movimenti sociali”. Questi movimenti sociali, emersi dalla e nella crisi del partito di massa novecentesco, si sono fatti portatori di una miriade variegata di istanze sociali, politiche e culturali. Dalle lotte contro l’autoritarismo accademico a quello sociale. Dalle rivendicazioni del movimento femminista a quelle degli ambientalisti passando per quelle pacifiste. Dalla rivendicazione di spazi sociali autonomi per la produzione culturale giovanile a quella della democrazia diretta ed orizzontale dei movimenti urbani. Insomma studenti, donne, neri, proletariato giovanile, minoranze etniche sono stati – tra gli altri – quenuovi soggetti capaci di produrre in modo autonomo e diffuso queste nuove forme di conflittualità sociale.

Prima obiezione. Nel nome di Marx: l’attacco economicista.

Che tipo di soggettività sono? Che forme di conflitto praticano? Perché chiamarle società civile? Perché non chiamarla “fenomenologia della nuova classe a venire”? Perché sulla base delle coordinate teorico-concettuali emerse nel dibattito sociologico e filosofico dalla prima metà degli anni 80 sono state individuate in quelle forme del conflitto e delle soggettività, non specificamente catturabili nella logica e nell’arena del sistema politico (stato) ne’ in quelle del sistema economico (mercato), le pratiche e le forme della socialità autonoma diffusa riconducibile al concetto moderno di società civileCon Gramsci ed il suo concetto di egemonia culturale ovviamente in prima linea. Nella rilettura contemporanea del concetto, poi, Habermas (Teoria dell’agire comunicativo e Fatti e norme) ha giocato un ruolo chiave. Per quanto poi – secondo me – si sia rilevato discutibile. sappiamo perché. In ogni caso, questa arena sociale non statuale ne’ economica è stata percepita, e si è in taluni casi autopercepita, come portatrice di interessi e istanze diverse da quelli della classe operaiaQuesta interpretazione delle nuove forme del conflitto per un po’ ha tenuto (complice ed effetto anche della c.d. svolta culturalista nelle scienze sociali). Io su questa interpretazione “post-materialista” – e lo dico qui per onestà intellettuale e politica – ho basato gran parte del mio concetto di società civile.

TuttaviaUna rilettura critica di quella fase storica da attuare con gli strumenti della sociologia e dell’economia politica forse oggi ci potrebbe essere utile. Forse queste riletture post-marxiste à la Habermas, Mouffe, e la Laclau (solo per fare alcuni nomi a cui comunque il mio libro deve molto) di questa fase di conflittualità sociale sono andate troppo in là, gettando il bambino con l’acqua sporca. Definendosi post – per intendersi – senza mai essere statmarxiste né aver incluso Marx. E con questo, facendosi portatrici di questo nuovo quadro concettuale e di interpretazione che ha accantonato troppo presto una visione materialistica dei nuovi rapporti sociali. Ma cosa fare allora? Come riprendere attivamente la tradizione marxista? Quale era la classe in questi conflitti? Come e dove si manifestava? Qui sta gran parte dell’arretratezza culturale di certo marxismo vetero ed ortodosso. Di non aver capito fino in fondo la portata delle trasformazioni produttive – dovute anche e, forse soprattutto, al ciclo di lotte operaie dei 60 –che hanno portato all’affermazione del sistema economico post-fordista.

Seconda obiezione. Nel nome del Partito: l’attacco politicista.

La società civile è un concetto debole ed inutile. La società civile non è ne’ fa politica. Più radicalmente, i movimenti sociali non sono politica. Quest’ultima è esclusivamente relegata al dominio statuale-sistema partitico. Appannaggio dei partiti politici. Quello che questi osservatori non sanno o non capiscono è che i “[…] movimenti comunque sono sempre politici. I movimenti esprimono sempre una “politicità intrinseca”, anche se non lo sanno, anche se non hanno il vocabolario per esprimerla e ne sono inconsapevoli. Il movimento è pur sempre politico, esprime insoddisfazione per l’esistente. Poi ci sono diversi gradi di incompatibilità con il sistema. La politicità è l’espressione di insoddisfazione ed incompatibilità con l’esistente. Una contestazione del sistema in cui si vive.” (da un’intervista ad un militante di un centro sociale di area autonoma di Torino). In questo senso, tutti i movimenti sociali fanno politica. E la fanno al livello più vicino della realtà quotidiana di molte donne e uomini.
movimenti sociali sono portatori di interessi parziali, conflittuali e non generalizzabili. Quest’ultima funzione spetta all’organizzazione politica per eccellenza. Quale? Il Partito.Soltanto il Partito (con la P maiuscola) è capace – hegelianamente aggiungerei io – di generalizzare gli interessi parziali e conflittuali della società civile e del suo sistema di bisogni. Il partito a cui questi critici (nostalgici) si riferiscono è il partito politico di massa. Per stare in Italia ed intenderci: il PCI. Questi critici nella loro ideologia non si sono accorti che nel frattempo la società è mutata. Il mutamento – mi ripeto – che si è dato nell’organizzazione della produzione capitalista - a parer mio (ma non solo) – è stato il fattore principale della crisi irreversibile di questa forma partito. Il partito nella sua forma di massa non ha più masse socialmente omogenee da rappresentare. L’idea che il partito comunista, o socialdemocratico in altri paesi europei, potesse continuare a rappresentare la classe operaia di fabbrica semplicemente non aveva più senso. Perché nel frattempo la classe operaia, trasformata dalla e nella nuova organizzazione del lavoro, si è segmentata e frazionata, perdendo così il proprio orgoglio e identità di classe. 

In questo senso, i movimenti sociali, causa ed effetto della crisi del partito massa, hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi la forma più adeguata per incanalare le più svariate e differenti domande sociali alle istituzioni politiche. Con o senza la mediazione dei partiti-apparato detti anche cartel-parties (Maier). Tutto questo per dire che il partito – se lo si intende nella sua funzione storica di rappresentanza degli interessi sociali – non è riformabile. È già da tempo morto e sepolto. E noi abbiamo le vicende del partito democratico delle ultime settimane a ricordarcelo.

Perché democrazia radicale?

Il secondo concetto che compone la diade che da il titolo al libro, democrazia radicale, emerge dalla letteratura post-strutturalista degli anni 80. In particolare, attingo ai testi di Mouffe e Laclau. Ma anche Rancière, LefortMansbridge e Young. Riferendomi a questa – molto discussa – tradizione di pensiero, puntavo a far venire politicamente fuori, un aspetto della società democratica che oltre trent’anni di dominio del pensiero unico liberale hanno delegittimato e messo pubblicamente all’angolo: la figura della contestazione/dissensoCon il rilancio teorico e politico di questa figura miravo a rovesciare il discorso dominante sulla (post)democrazia come il regno della “maggioranza silenziosa” e consenziente. Anche approssimando, forse un po’ rozzamente, si tende a considerare la democrazia come il “migliore dei mondi possibili” proprio per la sua capacità, in virtù del meccanismo elettorale, di fornire le chiavi del potere politico alla “maggioranza” di cittadini. Ma è davvero questa la specificità della democrazia? Quale regime politico non ricerca una certa dose di consenso sociale tra i suoi cittadini/sudditi? Nessuno. Anche il regime più dispotico e autoritario fonda il proprio potere su una certa forma di legittimazione politica, sociale e culturale.Pensare il regime democratico come l’unico regime in cui si sostanzia effettivamente un certo consenso sociale/politico è quindi non solo politicamente sbagliato, ma anche concettualmente fuorviante.

Io penso, per questo motivo, che sia/debba essere vera piuttosto un’altra interpretazione. Se tutti i regimi politici devono ottenere, per reggersi e conservarsi, una certa dose di legittimità sociale (non importa per il mio ragionamento discutere il modo in cui si manifesta e si produce questa legittimazione), allora e paradossalmente l’aspetto che sembra differenziare la forma democratica da tutte le altre forme politiche possibili è la possibilità/necessità di includere e riconoscere in essa la figura della contestazione. In tutte le forme possibili e temporalità in cui si manifesta. Il riconoscimento politico della contestazione/dissenso è, in altre parole, l’aspetto più importante della vita democratica: contestazione come il sangue della democrazia. Immaginare l’affermazione dell’era della democrazia radicale significa, quindi, valorizzare politicamente, e radicalizzare in ogni sua forma, la pratica del dissenso/contestazione sociale.