10 aprile 2013

Le rovine della politica

di Francesco Pignotti


Studiare scienza politica mi porta molto spesso a dimenticarmi che questa non è altro che lo studio con metodo scientifico della politica, ovvero di quell’attività che dovrebbe coincidere con l’amministrazione della polis per il bene comune, per il bene di tutti i suoi cittadini.
In definitiva mi dimentico di quale sia il fine ultimo della politica quando studio o scrivo della difficile formazione di un governo, del risultato non
decisivo di elezioni parlamentari; me ne dimentico quando scrivo di quali siano i problemi interni ad un’organizzazione di partito che lo conducono al fallimento, o di come potrebbe essere riformata efficacemente una legge elettorale. E devo ammettere che dimenticarmene in fondo non mi dispiace. Non mi dispiace dimenticare quale sia il fine ultimo di quell’attività che si chiama politica.
Forse è solamente una maniera per eludere il problema, il vero problema. O forse è un modo di affrontarlo in maniera scientifica e rigorosa, analizzandolo nei suoi singoli, specifici e particolari elementi, anche con la voglia e la speranza di poter migliorare le cose.
Non saprei dire; ma quel che è certo è che la politica, quella nobile che significa amministrazione della polis, è in crisi.
E se smetto di dimenticarmi di quale sia il fine della politica, me ne accorgo. Drammaticamente.
“Fate presto”, esclamano coloro ai quali non interessa se “non ci sono i numeri”, se “Grillo è coerente col suo programma”, se “il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere nel semestre bianco”, se “un governo deve avere la fiducia espressa da parte di entrambe le Camere”.
“Fate presto”, esclama chi vede il suo futuro, quando non il suo presente, irrimediabilmente compromesso. A chi la crisi – in senso lato – brucia sulla pelle non interessano meccanismi, numeri, procedure. Non sono una giustificazione sufficiente.
E se smetto di dimenticare, per un attimo non lo sono più neanche per me. Per me che vivo da ultra-privilegiato e che pure misuro il futuro nell’orizzonte temporale – esagero –  di un anno. Perché dopo non si sa.
Leggo della vicenda del triplice suicidio di Civitanova Marche; ascolto di un ladro che nella mia regione, a sessant’anni, pensionato dopo una vita di lavoro, si mette a rubare 50 euro nella casa di chi poi decide, l’indomani, di assumerlo come giardiniere, perché quei 50 euro in più al mese siano d’ora in poi il compenso per aver tagliato l’erba.
Se smetto di dimenticare mi accorgo di quanto la politica sia impotente nel realizzare il bene di tutti i cittadini.
Osservo i parlamentari pentastellati riunirsi in gran segreto per ricompattarsi agli ordini del verbo di un blogger; ascolto Davide Serra, finanziere e principale finanziatore della recente campagna elettorale di Matteo Renzi, e la sua spericolata “intraprendenza” à là Gordon Gekko mi fa improvvisamente paura; assisto all’arroccamento su posizioni sempre più insostenibili da parte del principale partito di centrosinistra e dei suoi dirigenti, nell’intento di mantenere in vita un apparato che mira oramai solamente a perpetuarsi e riprodursi; sento fare il nome di Amato come possibile nuovo Presidente della Repubblica, e mi chiedo se si tratta di quell’Amato che 20 anni guidava il governo che propose in aula di depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti, che negli anni ’80, sottoforma di mazzette, è stata una delle principali cause dell’esplosione del debito pubblico che adesso mette in forse il nostro futuro e il presente di molti.
Ascolto, osservo, assisto. E ciò che ho di fronte comincia a far paura.
Meglio dimenticare. Dimenticare quale sia il compito della politica, e continuare a studiarla ed analizzarla.
Forse è eludere il problema. Ma magari serve a qualcosa.