12 marzo 2013

Perchè il nuovo papa verrà dall'America

di Filippo Barbagli

Extra omnes. Fuori tutti. E non sono i grillini a gridarlo, ma è la formula secolare che qualche ora fa ha sancito l'inizio del conclave, che eleggerà il nuovo pontefice dopo il dimissionario Benedetto XVI.   La dottrina vuole che sia lo spirito santo a "guidare" i principi elettori di Santa Romana Chiesa nel momento della votazione. Ma oggi mi piacerebbe considerare più delle motivazioni di politica estera e strategia, alla base delle scelte che condurranno i cardinali vegliati dai nudi dipinti da Michelangelo.
E non lo scrivo per nobilitare la disciplina che studio, semplicemente perché credo che sia una chiave di lettura indicativa, anche se non esaustiva. Lungi da
me arrivare a dire -come spesso è successo nella storiografia e pseudo tale in Italia e non- che l'elezione di un nuovo pontefice possa causare sconvolgimenti geopolitici di portata epica. Insomma, se la guerra fredda è finita non è stato tanto grazie all'arrivo di Giovanni Paolo II, il papa polacco, sul trono del Vaticano, ma perché era una battaglia persa strutturalmente in partenza e per altri motivi su cui non mi dilungherò. Ma a noi italiani piace pensare questo, perché in fin dei conti consideriamo il papa un po' come “cosa nostra”, una proiezione dell'Italia e della potenza della sua cultura cattolica nel mondo.
Come ci illudiamo che possa essere eletto ancora un italiano come pontefice, in questo preciso momento.

Se i cardinali elettori dovessero ragionare esclusivamente in termini di politica estera infatti non eleggerebbero mai un papa italiano per alcune semplici motivazioni. La prima è data dal fatto che gli italiani rappresentano una maggioranza spropositata rispetto alla reale popolazione cattolica del paese. Ragà, damose una svegliata: il continente cattolico è l'America (ed il suo subcontinente latino), non l'Europa. Gli italiani hanno regnato per secoli dal trono di san Pietro ed ancora oggi occupano alcune tra le cariche più importanti nella Curia Romana. La quale è sì, essenzialmente, un organo in cui si parla italiano, ma il suo grado di internazionalizzazione è cresciuto sempre di più. Insomma, il “tempo degli italiani” è finito, la Chiesa, nel momento in cui comprende che deve realmente porsi nel XXI secolo, deve guardare oltre.

La fronda contro la lobby italiana è poi giustificata dai recenti scandali (Vatileaks&co) e lotte di potere che hanno investito la Curia negli ultimi anni. Nell'occhio del ciclone troviamo infatti il capo della Segreteria di Stato (la longa manus internazionale della chiesa cattolica), il cardinale Tarcisio Bertone. Un'operazione di chirurgia, anche estetica, volta a “de-italianizzare” la Chiesa, aiuterebbe forse a creare un'immagine più trasparente ed onesta della Curia.

Parlavo di una maggioranza spropositata dei cardinali italiani in rapporto alla popolazione. Quindi, mi rivolgo anche agli studiosi di elezioni, è possibile che si crei un fronte maggioritario tra gli elettori extraeuropei ma anche del Vecchio Continente, per scegliere un pontefice rappresentativo di una fetta della cattolicità più consistente.

In America vivono centinaia di milioni di cattolici, l'uniformità religiosa parte da San Francisco fino allo Stretto di Magellano, con alcune eccezioni, per lo più caraibiche. La Chiesa in quei paesi ha subito in forma minore il trauma della secolarizzazione, e mantiene un'influenza ed un peso ancora veramente notevoli, più che in Europa. Sia per le questioni sociali, sia per l'educazione, o per problemi come la povertà, il clero cattolico è un pilastro fondamentale della società. Un papa (latino)americano, o comunque di quella provenienza geografica, sarebbe l'espressione di una Chiesa consapevole della propria forza oltreoceano, nuova e rinnovata, capace di rappresentare su una scala maggiore la propria cattolicità. Senza dimenticare che donerebbe vigore comunque ad un'istituzione che in quel continente si trova ad affrontare sfide come la questione della pedofilia e la crescita delle chiese evangeliche, soprattutto nel suo fiore all'occhiello, il Brasile.

Ragionando in termini di politica estera, i cardinali ottimizzerebbero quindi il capitale cattolico offerto dal continente americano, scegliendo un cardinale da lì proveniente. Perché se la Santa Sede è un'istituzione religiosa, la Città del Vaticano ed il suo monarca, sono una potenza geopolitica internazionale importante, a discapito della dimensione. Perché il papa rimane comunque per milioni di persone una guida spirituale, e le posizioni della Chiesa cattolica su certe tematiche possono benissimo influenzare processi politici in decine di stati, anche tra quelli più importanti. Ecco perché tutti, atei e credenti, dovremmo fare attenzione a quello che avviene nella Cappella Sistina.
Inoltre dalla Curia Romana dipendono formalmente tutte le articolazioni del clero cattolico nel mondo, il quale in certi paesi ha un peso sociale fondamentale. Tutto questo per ribadire che l'alta politica passa anche per i corridoi dei palazzi vaticani, che piaccia o no.
Un buon stratega, pratico di un minimo di strategia e politica internazionale, guarderebbe quindi all'America come un bacino dove pescare il futuro pontefice. Anche perché stiamo continuando a parlare del “più europeo” dei continenti extraeuropei. Il trauma del passaggio dello scettro da una sponda all'altra dell'Atlantico, sarebbe quindi più soft. Infine, sarebbe la naturale evoluzione di un processo che ha visto, storicamente, lo spostamento del centro di emanazione del potere dall'Europa al resto del mondo. E' giunta anche l'ora che ciò accada nell'istituzione più conservatrice ed ossificata del mondo.

Leggendo, sempre in un'ottica “internazionalista”, i conclavi precedenti, possiamo notare come i cardinali seppero individuare dei punti caldi della politica internazionale come origine del proprio papa, acquisendo così un raggio d'azione politica e simbolica più ampio. Pescando un pontefice oltre la cortina di ferro nel 1978, si diedero un potere geopolitico importantissimo, scegliendo un pastore tedesco nel 2005, incoronarono un teologo pronto a fronteggiare la crisi del relativismo, un tedesco interessato ad influenzare pesantemente la politica di un'Europa dinamica ma in crisi d'identità.

Personalmente non credo che i cardinali siano così coraggiosi da scegliere un papa nero. Per motivi simbolici e politici soprattutto, visto che la lobby africana nel collegio cardinalizio non sembra essere ancora così potente. Ma sarebbe un gesto machiavellico quello di affidare il trono vaticano anche ad un asiatico, cioè porre alla guida della cattolicità un uomo proveniente dal continente dove si svolge la sfida del secolo, quella della Cina. Sarebbe un coup de main da celebrare, cercare di penetrare la più grande e secolare dittatura del mondo. Teniamone conto, nei prossimi anni. Forse è ancora troppo presto, per una mossa così coraggiosa ed impavida.

Se è vero che chi entra in conclave da papa ne esce cardinale, gli italiani risulterebbero appunto perdenti. Quindi considerando le motivazioni che ho appena espresso, aggiungendo altre come la ricerca di un papa “giovane” e “pulito”, che abbia le forze fisiche ed intellettuali di traghettare la Chiesa cattolica nei prossimi difficili anni, mi azzardo a fare due nomi.
Marc Oullet, cardinale Oullet, canadese ma del Quebec, il più europeo degli americani, “solo” 68 anni e fine intellettuale. Francofono, e la Francia si appresta ad approvare i matrimoni gay.
Timothy Dolan, cardinale statunitense. Il sogno degli USA di conquistare anche San Pietro sarebbe realtà. E darebbe forza all'istituzione rovinata dagli scandali della pedofilia e dalla lotta alla laicizzazione del paese. Un papa da furor di popolo, visto le sue azioni “anti-privilegiati”. C'è poi anche il bostoniano O'Malley, che gira in bicicletta.
Odilio Scherer, brasiliano. L'America Latina in tutta la sua forza, e pure con un cognome tedesco. Un passaggio di consegne meno traumatico insomma. E per il Brasile, l'ennesima conferma della sua egemonia in quel continente.
Vedremo.