31 dicembre 2011

Apologia delle rivoluzioni perdute - parte II

                                                      Niente di nuovo sul fronte orientale?
La guerra in Vietnam fu giustificata per
fronteggiare la rivoluzione dei Vietcong
Invece che augurarvi buon anno o buon natale, comincio quest'intervento citandovi la Pasqua. Ebbene sì, mentre quest'anno voi sgranavate senza ritegno durante il pranzo con i parenti e la primavera araba era nel pieno dei suoi sviluppi, in un ospedale romano spirava una donna di nome Tran Le Xuan, di 86 anni di età. Il nome non vi dice niente? Bene, neanche a me. Eppure negli anni sessanta era un personaggio famoso, come può essere oggi Carla Bruni o Moza del Qatar, che solo per il nome bislacco è stata scelta come madrina di questi post. Era conosciuta come Madame Nhu. Non vi (ri)dice niente? Beh, (ri)neanche a me. Ho provato a chiederlo in giro, e qualche
membro della generazione precedente alla mia mi ha riferito che si trattava della first lady del Vietnam del Sud. Cognata del presidente
Ngo Dinh Diem. Gli appassionati di storia od i martiri del manuale del Di Nolfo ora sanno di chi sto parlando. Diem è stato il primo presidente del Vietnam del Sud, dopo che il paese ebbe ottenuto l'indipendenza dalla Francia nel 1954. Filoamericano fino al midollo, chiese ad Einsenhower e poi a J.F. Sorriso smagliante Kennedy l'invio di consiglieri militari
statunitensi per fronteggiare i vietcong di Ho Chi Min e del generale Giap. Così è nato il pantano del Vietnam, Rambo e Nato il 4 luglio. Ma è un'altra storia.
Diem instaurò una dittatura nepotista di stampo occidentale in Asia, dando al suo paese una parvenza di democrazia (chi vi ricorda?). Tuttavia su ordine di JFK, con l'appoggio della CIA, dei generali attuarono un golpe, uccidendo Diem ed il suo potente fratello, defenestrando così la loro famiglia dal potere a Saigon: era il primo novembre 1963, ventuno giorni dopo a Dallas i pezzi volanti di corteccia celebrale del presidente americano avrebbero fornito un altro esempio di realizzazione di nemesi storica. Perché gli Stati Uniti fecero fuori Ngo Dinh Diem? Perché era diventato un personaggio scomodo. La sua dittatura, altamente repressiva contro ogni forma di opposizione democratica e religiosa (Diem era profondamente cattolico ed odiava i buddisti), basata su un sistema nepotista e clientelare aveva finito per favorire la guerriglia dei vietcong. Infatti il presidente non era affatto benvoluto dalla popolazione, ed a peggiorare la situazione contribuiva appunto Madame Nhu. Personaggino poco simpatico, sempre alla moda, bigotta come può essere una buddista convertita al cattolicesimo, snob come una first lady repubblicana di origini aristocratiche, la signora in questione ogni tanto si lasciava andare in affermazioni decisamente poco felici. E prive di qualsiasi acume politico. Quando a Saigon un monaco buddista si dette fuoco in mezzo alla strada nel giugno del
'63, mostrando clamorosamente al mondo l'opposizione contro il regime di Diem, la signora Nhu, in un'intervista, sminuì il fatto bollandolo come un “barbecue” senza alcuna conseguenza. Ed in più « Per uccidersi in nome della nazione non hanno nemmeno usato benzina nazionale ma quella importata dall'estero ». Non considerava il fatto che anche la popolazione era satura del regime di suo cognato, al punto che certi frangenti cominciarono ad appoggiare il Vietnam del Nord con la speranza di vivere meglio sotto i comunisti. Non sapeva che di lì a poco il suo potere sarebbe crollato come un castello di carte nel sangue, mentre la situazione degenerava verso le giungle bruciate dal napalm.
Quasi cinquant'anni dopo, il pomeriggio del 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid in Tunisia, Mohammed Bouazizi, un giovane venditore ambulante si è dato fuoco. Il motivo? Protestare contro le leggi oppressive che non gli permettevano di vendere, dopo che la polizia gli aveva confiscato le merci e lo aveva picchiato. E protestare contro il regime nepotista del dittatore filoccidentale Ben Alì. La notizia passò quasi inosservata, ma il fuoco che ha fatto morire il giovane per ustioni ha innescato la miccia di una bomba: il giorno dopo manifestazioni divamparono in tutta la Tunisia e nel giro di neanche un mese, il dittatore è stato costretto ad abdicare. Le rivolte arabe erano appena cominciate, con esiti che in pochi avrebbero immaginato.
Se si volesse scrivere un saggio sulla fenomenologia delle rivoluzioni, un buon punto di partenza sarebbe la definizione di due leggi rintracciabili quasi sempre in questi casi: la prima è che chi comincia le rivoluzioni non le conclude. Quasi duecento anni fa veniva incoronato a Notre Dame Napoleone, non il popolo di Parigi. Le elezioni in Egitto le vinceranno i Fratelli Musulmani, non i giovani di Twitter e Facebook martoriati in questi giorni in Piazza Tharir. La seconda legge è più banale. Le rivoluzioni non ti dicono quando arrivano. Cominciano con piccoli eventi, immergibili nella fluidità scorrevole del quotidiano, e quando si mostrano in tutta la loro carica, è troppo tardi per fermarle e per arginarle. Come ha detto qualcuno, le rivoluzioni si fanno con le idee, e le idee non si bloccano con i cancelli.
La sera del 14 luglio 1789 Luigi XVI annotò sul suo diario un semplice rien de nouveau. A Versailles il silenzio regnava sovrano, come tra la folla accalcata in Place de la Concorde il 21 gennaio 1793, pochi istanti prima che la lama della ghigliottina decapitasse un'era.

L'isola che non c'è
Torniamo nell'emirato dei balocchi, il Qatar. Avevamo già parlato (QUI), di come il sultanato nepotista mascherato da democrazia possa essere assunto come caso emblematico di regimi autoritari sostenuti dalle democrazie occidentali per motivi geopolitici ed economici. Trasformiamolo in paradigma ed analizziamone gli aspetti negativi. Avevamo già sottolineato come i migranti lavoratori, che rappresentano l'80% della popolazione, vivano in condizioni pessime e senza diritti: un fattore che sul lungo periodo può rivelarsi come una bomba ad orologeria. Senza dimenticare la percentuale delle donne migranti, spesso assunte come lavoratrici domestiche, le quali sono spesso soggette alla totale padronanza dei datori di lavoro, che ha comportato anche casi di stupro e violenza domestica, come denunciato dal report 2010 sul Qatar di Amnesty International. Infatti, nonostante la presenza della sceicca, le condizioni della donna nell'emirato non sono delle più felici. Certo, potrete sentire testimonianze che vi assicurano che rispetto a quelle di altri paesi arabi le donne qatarine vivono molto meglio, ma la legislazione, sul diritto di famiglia e di successione non applica de facto (ed in certi casi anche de jure) l'uguaglianza tra i due sessi. Inoltre tutto il sistema giuridico si basa sulla sharia, rendendo quindi l'emirato in una monarchia assoluta teocratica, ben lontana dalle vere, seppur incespicanti, democrazie occidentali. La pena di morte è legale ma non più praticata, così come la tortura. Ça va sans dire che l'omosessualità -intesa come sodomia- è illegale, quindi non è previsto nessun diritto civile per la popolazione LGBT, seppur ce ne sia di dichiarata. L'argomento rimane comunque un tabù nella maggioranza del mondo arabo, fino a casi che possono sembrare paradossali, come quello del confinante Oman: l'attuale sultano Qaboos, salito al potere nel 1970 dopo aver deposto il padre (chi vi ricorda?), non ha mai mostrato interesse verso la vita matrimoniale o la poligamia, non ha eredi e vive circondato da uno squadrone di giovani yemeniti e baluchi dal fisico prestante. E' palesemente gay insomma, ma in Oman non esistono diritti per tale categoria di popolazione. La predominanza della religione (il paese ha il più alto rapporto al mondo tra abitanti e numero di moschee) comporta ovviamente anche limitazioni della libertà d'espressione. Molti stranieri sono stati imprigionati per “blasfemia”.
E qui si arriva al nocciolo.
Perché dietro la facciata luccicante dei grattacieli pregnanti di GNL, si nasconde un sistema poliziesco di censura spietato. Ma come? -diranno alcuni- Al Jazeera ha sede nell'emirato ed è stata l'emittente simbolo del giornalismo indipendente, che ha fornito un fondamentale supporto mediatico alla rivoluzione tunisina e soprattutto egiziana! Eppure Al Jazeera rimane una vistosa eccezione, indicata dal suo stesso nome “l'isola”. Ed il suo stesso approccio nei confronti delle rivolte in Oman od in Bahrein è stato qualitativamente differente rispetto a quello usato verso la Libia o l'Egitto. Della serie, più ci avviciniamo al nostro paese, meno siamo critici e paladini delle rivoluzioni. Nonostante ciò il canale su YouTube dell'emittente qatarina risulta il più visitato (2,5 milioni di spettatori al mese) ed Al Jazeera è diventata un simbolo della primavera araba. In effetti, si occupa solo di politica estera e non di politica interna, senza dimenticarci che è proprietà del suo fondatore, l'emiro baffuto e paffutello. Come proprietà di altri membri della famiglia reale (e quindi la classe dirigente) lo sono i principali quotidiani nazionali, in un paese dove la stampa estera scarseggia come la povertà nell'alto clero cattolico. Secondo Reporters Sans Frontières il Qatar è al 94° posto, su 178, per libertà di stampa (clicca QUI), mentre da FreedomHouse è classificato come stato non libero. Il misericordioso emiro ha soppresso la censura nel 1995, promulgando un disegno di legge non ancora varato, situazione che comporta quindi la totale discrezionalità del governo nel controllo del sistema delle informazioni. Guarda caso, la tv non parlò assolutamente dell'evento di Facebook, organizzato sulla falsa riga degli altri paesi arabi, che mobilitava una manifestazione per la democrazia a Doha a giugno. Se a questo cupo quadro ci aggiungiamo due dati contraddittori, il risultato si fa ambiguo: gli USA non permettevano l'espansione di Al Jaazera nel loro paese via cavo o via satellite fino a qualche mese fa, mente il direttore della tv, il rampante Wadah Khanfar, si è dimesso via Twitter dopo 8 anni. La causa? L'accusa, comprovata dai cablogrammi pubblicati da Wikileaks, di avere rapporti ambigui con la diplomazia a stelle e strisce e quindi con l'intelligence, che lo spingeva a “ritoccare” certi reportages. Khanfar è stato sostituito da un principe al-Thani, mirando ancora di più alla credibilità dell'indipendenza sostanziale dell'emittente.

Tra Scilla e Cariddi
Dicevano che il bacino del mar Mediterraneo fosse ormai destinato a scomparire dalle dinamiche geopolitiche trascinanti del XXI secolo. Quello che è successo e sta accadendo in questi mesi ha dimostrato che per altri decenni i giuochi che avverranno tra le Colonne d'Ercole e la Galilea influenzeranno ancora gli equilibri mondiali. Facciamo una breve summa di questo 2011 che ha, per rimanere in tema, tagliato un po' di teste. Certo, si considerano eventi “distanti” tra di loro, quali per esempio la crisi dell'euro o le rivolte arabe, ma sono tutte le dirette conseguenze della crisi economica cominciata nel 2008. La guerra civile in Libia ed Occupy Wall Street, gli indignados di Puerta del Sol e gli eroi di Homs in Siria sono figli della stessa madre. Com'è cambiata questa parte del mondo rispetto all'ultimo anno? Senza considerare i cambi di primi ministri e non, e le concessioni di costituzioni ottriate o qualche altro diritto à la carte, ecco un breve elenco esemplificativo:
  1. Ben Alì, Presidente della Tunisia, dal 1987, lascia il 14 gennaio, scappando a Jeddah
  2. Hosni Mubarak, Presidente dell'Egitto dal 1981, rinuncia al potere l'11 febbraio, attualmente sotto processo
  3. 17 febbraio, scoppia la rivoluzione a Bengasi ed inizia la guerra civile in Libia, con un bilancio finale di circa 30'000 morti
  4. 21 giugno, il primo ministro portoghese, Jose Socrates, si dimette perché il piano di austerity contro la crisi non passa in Parlamento
  5. 21 agosto: Tripoli cade, Muammar Gheddafi, dittatore della Libia dal 1969, scappa. Attualmente deceduto in mondovisione
  6. 11 novembre, il capo di governo della Grecia, il socialista Papandreou, lascia l'incarico a seguito dell'impossibilità di attuare riforme condivise per fronteggiare il rischio di default del paese.
  7. 12 novembre, Berlusconi, prestigiatore del pollice imprenditoriale e con l'hobby della prostituzione minorile e della politica, si dimette dalla carica di Presidente del Consiglio dell'Italia: il suo governo è incapace di far fronte alla crisi economica e la comunità internazionale, insieme ai mercati, l'hanno totalmente sfiduciato.
  8. 20 novembre, elezioni anticipate in Spagna convocate dal premier Zapatero. Vince l'opposizione dei Popolari.
  9. 23 novembre, il primo (ed unico) Presidente dello Yemen, Ali Abd Allah Saleh, al potere dal 1978, promette di dimettersi entro febbraio del 2012.
Alla vostra ricetta, aggiungeteci che l'anno prossimo dovrebbe scoccare l'ora anche per Bashir Assad in Siria e Monsieur Sarkozy.
Il piatto è servito.
Un punto di non ritorno
Il 2011 è stato un anno di svolta. Perché al di là dei cambiamenti (epocali?) nel bacino del Mediterraneo possiamo tracciare altri eventi fondamentali, ad inizio o conclusione di percorsi decennali. Vediamone alcuni.
I ribelli libici festeggiano l'uccisione di Gheddafi,
a Sirte, il 20 ottobre  2011
In primis la crisi dell'euro, e quindi, dell'Europa, come idea. A dieci anni dall'entrata in vigore della moneta unica, le divisioni tra gli stati, la debolezza dei governi, la tirannia dei mercati e delle agenzie di rating, l'inettitudine di una classe politica che ragiona ancora in termini nazionalistici, rischiano di portare la più grande invenzione politica del XX° secolo alla rovina.
Una notizia passata incredibilmente inosservata è stata la fine della guerra in Iraq, dopo 8 anni. Un conflitto che ha segnato una generazione, e dato adito a deliri postmoderni come lo scontro di civiltà o l'esportazione della democrazia. Questo fatto, unito all'assassinio di Osama Bin Laden a maggio, cioè la decapitazione di al-Qaeda, ha esaurito in pratica la politica estera USA bushiana del Grande Medio Oriente, aprendo de facto le porte (dopo la risoluzione della questione della fine del regime siriano e quella pakistana) all'inaugurazione del grand jeu contro l'Iran.
Il 2011 è stato l'anno che ha visto anche lo spaccamento dei BRICS sulla questione del FMI, quindi la dimostrazione che essi rimangono un acronimo importante, ma non una potenza geopolitica unitaria. Senza dimenticare che la morte del ridicolo Kim Jong-Il della Nord Corea, unito al disastro di Fukushima in Giappone a marzo, ha riaperto la questione nucleare e della sicurezza in Estremo Oriente.
Infine, pensando alla Russia, non si possono non citare le manifestazioni contro Putin, indicative dell'aria che tira tra Mosca e San Pietroburgo, ma soprattutto il lancio da parte del nano malefico di turno dell'idea dell'Unione Euroasiatica, una sorta di URSS de noattri o all'acqua di rose, basata sul monopolio di mercati fondamentali come quello del gas. A novembre è stato firmato il Patto, che prevede la creazione di una Commissione e la nascita dell'Unione entro il 2015. Una brutta copia, non democratica, dell'arrancante UE. Russia, Bielorussia e Kazakhistan hanno già aderito, mentre Kyrgyzstan e Tagikistan strizzano l'occhiolino. On verra.
Insomma, lasciando le considerazioni sul piano interno al mio collega, non resta che constatare che questo 2011, nel bene o nel male, internazionalmente parlando ha segnato un punto di rottura e di cambiamento, ed è quindi destinato, come il mio caro 1989, ad entrare nei libri di Storia. Quella con la maiuscola.
BARBA

(continua l'anno prossimo...)